Cass. pen. sez. V - Sent. 11/06/2020 n. 17955 - Accertamento guida in stato di ebbrezza: la perquisizione arbitraria del mezzo configura il delitto di cui all'art. 609 CP a carico dell'agente che l'ha compiuta
CORTE CASSAZIONE
Sentenza 11 giugno 2020, n. 17955
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Presidente: Carlo ZAZA
Rel. Consigliere: Enrico Vittorio Stanislao SCARLINI
ha pronunciato la seguente
Sentenza
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 26 marzo 2018, la Corte di appello di Palermo confermava la sentenza del Tribunale di Marsala che aveva ritenuto A. A., B. B., C. C. e D. D., tutti carabinieri in servizio presso la Stazione di Pantelleria (A. A. con il grado di maresciallo, B. B. di appuntato, gli altri due di carabiniere scelto), colpevoli dei seguenti delitti, commessi i fatti di cui ai capi A, B, D e F il 10 luglio 2011 ed il fatto contestato al capo I nel corso dell'anno precedente:
- A. A., B. B. e D. D., del reato continuato di lesioni personali gravi cagionate a E. E. (capo A), consumato all'interno della caserma a seguito della sua sottoposizione ad un controllo relativo all'ipotesi di guida in stato di ebbrezza;
- il solo B. B., del delitto di cui all'art. 609 cod. pen. per avere eseguito una perquisizione arbitraria dell'autovettura del E. E., omettendo anche di redigere il relativo verbale (capo B);
- A. A. e C. C., del reato di sequestro di persona aggravato, consumato anch'esso ai danni del E. E. (capo D);
- A. A., C. C., B. B. e D. D., del reato di falso ideologico (artt. 476 e 479 cod. pen.) per avere falsamente affermato (nell'annotazione di polizia giudiziaria e nel verbale di elezione di domicilio e di nomina del difensore) di avere effettuato, nella medesima notte, il controllo di G. G., alla guida della sua autovettura, e di averlo sottoposto immediatamente all'alcoltest, esame che, invece, era avvenuto solo all'interno degli uffici della caserma (capo F);
- A. A., B. B. e D. D., del delitto di sequestro di persona aggravato per avere, nel corso dell'anno precedente, illecitamente limitato la libertà personale del cittadino rumeno F. F. che, dopo avere percosso, accompagnavano in caserma, trattenendovelo senza giustificazione alcuna (capo I).
1.1. I giudici del merito avevano, concordemente, ricostruito le vicende oggetto delle imputazioni, alla luce del compendio probatorio raccolto, così come segue.
1.1.1. E. E., persona offesa dei reati A, B e D (le lesioni personali, l'arbitraria perquisizione della vettura ed il sequestro di persona), aveva riferito che, mentre era alla guida della sua autovettura, all'interno della quale si trovavano anche G. G. (persona offesa del falso contestato al capo F) e H. H., era stato fermato dalla pattuglia dei carabinieri, composta dagli imputati B. B. e C. C. e, sottoposto al blowtest (una verifica preliminare della presenza di alcol nel fiato del soggetto), gli era stato ingiunto di recarsi, con la sua auto in caserma (come aveva fatto, facendo scendere in paese i suoi due amici), per essere sottoposto ad un più approfondito alcoltest.
Era entrato nell'edificio dal retro ed aveva poi affrontato B. B. che, essendosi tolto, al suo rientro in caserma, i guanti in lattice, riteneva avesse perquisito la sua autovettura, nonostante questi, alla sua richiesta di chiarimenti, l'avesse negato. Aveva però, una volta rientrato in possesso della vettura, trovato l'abitacolo in subbuglio.
Il piantone, poi identificato nel carabiniere L. L. (e che era stato assolto da tutte le accuse mossegli, nel corso dell'odierno processo), l'aveva condotto in una stanza dove era stato sottoposto all'alcoltest. Al primo tentativo non aveva soffiato abbastanza, così che il maresciallo A. A. l'aveva colpito con degli schiaffi, che aveva ripetuto quand'egli aveva protestato.
Era poi giunto in caserma anche il suo amico G. G. (in compagnia del H. H.), con l'intento di riaccompagnarlo a casa qualora gli fosse stata ritirata la patente e fosse stato pertanto impossibilitato a condurre la sua autovettura.
Il maresciallo A. A. aveva percosso anche il G. G.
Era così intervenuto in difesa dell'amico, ma A. A. l'aveva nuovamente colpito ed altrettanto avevano fatto i carabinieri B. B. e C. C., il piantone ed un quinto militare.
Quando aveva rialzato la testa, C. C. gli aveva detto di ricordarsi che lui non l'aveva toccato (circostanza che, peraltro, non gli era sembrata rispondere al vero).
G. G. aveva cercato di soccorrerlo ma era stato spinto via dal piantone, condotto a fare anch'egli l'alcoltest e percosso dal A. A.
L'altro amico, H. H., nel frattempo, era rimasto nella saletta di ingresso della caserma, senza subire alcuna aggressione.
A. A. aveva continuato a colpirlo fino a quando non aveva ordinato a C. C. di rinchiuderlo nella cella di sicurezza. Dove era rimasto per circa un'ora.
Senza quel telefono cellulare che B. B. gli aveva assicurato che, una volta libero, gli sarebbe stato riconsegnato.
Si era rifiutato di firmare il verbale e la mattina dopo era stato fatto uscire ed accompagnato a casa da un certo I. I. che era sopraggiunto, chiamato dal maresciallo A. A. con l'incarico di trasportare con il carroattrezzi la sua vettura, che non aveva consentito a G. G. e H. H. di portare via.
Nell'album fotografico, rammostratogli tre anni dopo i fatti, in dibattimento, riconosceva A. A. e B. B. ma faticava ad individuare D. D., C. C. e L. L., il piantone. All'epoca dei fatti, però, aveva però puntualmente indicato le effigie dei suoi aggressori nel A. A., nel B. B. e nel D. D. (identificando quest'ultimo nel carabiniere che "andava e veniva").
Il Tribunale e la Corte territoriale - tenendo conto della coerenza del racconto e della personalità del teste - ritenevano tale ricostruzione dei fatti pienamente attendibile.
Anche perché la stessa aveva trovato ampio riscontro in plurime fonti dichiarative e documentali.
1.1.2. Innanzitutto, nella deposizione del teste - e, a sua volta, persona offesa - G. G., il quale aveva, infatti, ricostruito l'accaduto in modo perfettamente sovrapponibile a quanto narrato dal E. E.: il controllo sulla strada, l'invito al E. E. a recarsi in caserma; il suo stesso arrivo in Stazione con il H. H.; le percosse ricevute dal A. A.; l'intervento a suo favore del E. E.; la restrizione in cella di quest'ultimo ed il suo rifiuto a sottoscrivere il verbale che i carabinieri gli avevano sottoposto.
Indicava come aggressori del E. E., oltre a A. A., anche B. B. e D. D. che riconosceva, tutti, in foto. Escludeva la partecipazione del piantone, che individuava nel L. L.
1.1.3. H. H. confermava anch'egli i passaggi essenziali della vicenda: il controllo in strada e l'ordine rivolto a E. E., di portarsi in caserma; il sopraggiungere del G. G. e suo in Stazione, l'aggressione a E. E. e a G. G., l'alcoltest a cui il secondo era stato sottoposto.
Individuava in foto, con certezza A. A. e B. B., con qualche approssimazione D. D. Non il piantone.
1.1.4. Il conducente del carroattrezzi I. I. riferiva le confidenze ricevute nell'immediatezza dal E. E., l'essere stato, appunto, percosso dai carabinieri.
Venivano poi citate altre testimonianze di contorno. Ancora confermative del complessivo fatto denunciato dal E. E.
1.1.5. Il carabiniere Stefano L. L., invece, aveva redatto una relazione dalla quale si evinceva che E. E., in evidente stato di ebbrezza, era stato condotto in caserma per essere sottoposto all'alcoltest.
Poco dopo erano sopraggiunti i suoi due amici.
Gli animi si erano surriscaldati, fra A. A. e E. E., e quest'ultimo aveva causato delle lesioni al suo amico G. G. che aveva cercato di trattenerlo dall'aggredire i militari.
1.1.6. Il referto redatto nei confronti del E. E. riportava una diagnosi di "lesioni plurime da patita aggressione".
1.2. Così ricostruito il compendio probatorio formatosi sui fatti consumati innanzitutto in danno di E. E. (si vedrà poi per G. G.), il Tribunale prima e la Corte distrettuale poi ritenevano provate la responsabilità di A. A., B. B. e D. D. in ordine al capo A (le lesioni personali), di B. B. per il capo B (l'arbitraria perquisizione), di A. A. e C. C. per il capo D (il sequestro di persona).
1.2.1. L'elaborato del consulente del pubblico ministero, dott. M. M., giustificava la contestata durata della malattia (di oltre quaranta giorni, così da concretare la circostanza aggravante, ascritta ai sensi dell'art. 583, comma 1, n. 1, cod. pen.), anche considerando che le parti ne avevano acquisito, in prime cure, l'elaborato, rinunciando al controesame.
1.2.2. Il lasso di tempo in cui E. E. era stato illecitamente trattenuto doveva essere limitato, rispetto a quanto contestato in imputazione (la sua intera permanenza in caserma), a quello in cui era stato fatto permanere nella cella di sicurezza (la Corte precisava fino a quando costui era stato liberato).
Sia A. A., sia C. C. (che significativamente aveva protestato la sua estraneità al pestaggio al E. E. stesso) erano pienamente consapevoli della illiceità del trattenimento del E. E. nella cella posto in considerazione del complessivo comportamento, aggressivo e arbitrario, tenuto a suo danno fino a pochi istanti prima, così pienamente configurandosi il dolo del sequestro di persona loro contestato al capo D.
Doveva ritenersi provata anche la responsabilità del B. B. per l'arbitraria perquisizione, in assenza delle ragioni che l'avrebbero potuta legittimare, la necessità e l'urgenza, logicamente riscontrata dalla mancata redazione del relativo verbale.
1.3. I giudici del merito, poi, avevano ritenuto che fossero stati raccolti elementi di prova sufficienti anche per confermare la responsabilità degli imputati per la condotta ascritta al capo F della rubrica, il delitto di falso ideologico consumato a danno di G. G., ai firmatari degli atti ivi indicati, A. A., C. C., D. D. e B. B.
La persuasiva fonte di prova di tale delitto era costituita dalla ricostruzione offerta dal medesimo G. G. e dai riscontri provenienti dalle deposizioni di E. E. e H. H.
Il falso era consistito nell'avere indicato - negli atti redatti dai militari - che G. G. era stato sottoposto all'alcoltest in strada, al momento del suo presunto controllo alla guida della sua vettura, e non in caserma, presso la quale si era recato per fornire il suo aiuto all'amico E. E., come era invece avvenuto e ciò all'evidente scopo di ritorsione per quanto in caserma era accaduto dopo il suo intervento.
Falso pienamente confermato dalle dichiarazioni dei tre testimoni - E. E., H. H. e lo stesso G. G. - che avevano concordemente riferito come l'unico controllo in strada fosse stato fatto al E. E. (che era poi il conducente della vettura sulla quale i tre si trovavano) e come G. G. fosse stato sottoposto all'alcoltest solo in Stazione (senza che il test fosse seguito ad un controllo in cui era stato colto alla guida della sua autovettura).
1.4. Nel corso delle indagini era inoltre emerso un altro fatto (oltre ad altre condotte per le quali i prevenuti erano stati mandati assolti), accaduto l'anno prima, nel 2010, qui contestato al capo I e consumato - da A. A., B. B. e D. D. - a danno di tale F. F.
Questi aveva riferito di essere stato aggredito, senza ragione alcuna, all'uscita di un pubblico esercizio, dal A. A., che, in quel momento, si trovava in compagnia di altri due carabinieri, tutti in borghese. Affrontato all'esterno del locale, era stato condotto in una stradina laterale, e lì era stato percosso.
Dopo l'intervento in suo soccorso di tale N. N., era stato condotto in caserma, ed era stato ammanettato e picchiato dal A. A. e dal carabiniere di nome B. B. (il B. B.). Solo grazie all'intervento del maresciallo dei carabinieri P. P. - che prestava anch'egli servizio presso la caserma di Pantelleria e che era stato sollecitato ad intervenire dal datore di lavoro dell'F. F., O. O., suo cognato, a sua volta sollecitato dal fratello dell'F. F. - era stato poi liberato.
Riconosceva in foto i suoi aggressori nel A. A., nel B. B. e nel D. D.
1.4.1. Il racconto dell'F. F. aveva trovato adeguato riscontro nella deposizione di N. N. - la giovane indicata dall'F. F. come colei che era intervenuta a suo favore quando era stato aggredito dai tre imputati - che aveva riferito di avere visto due persone, che sapeva essere carabinieri, prendere l'F. F., portarlo in una stradina, picchiarlo, e poi condurlo in caserma.
Ella, la N. N., aveva poi accompagnato il fratello della vittima dal loro datore di lavoro, O. O., affinché questi intervenisse presso il cognato, maresciallo P. P., per avere spiegazioni su quanto accaduto e quanto stava ancora accadendo.
Riconosceva gli aggressori dell'F. F. nelle foto di A. A. e D. D. O. O., a sua volta escusso, confermava la visita della N. N. e del fratello dell'F. F. e la sollecitazione ad intervenire rivolta al cognato, maresciallo P. P.
Il maresciallo P. P., infine, anch'egli sentito, aveva riferito di avere affrontato il collega A. A. in caserma, contestandogli la ricostruzione dei fatti che F. F. gli aveva in quell'occasione confermato (l'aggressione patita dal A. A. e da altri appartenenti all'Arma).
1.4.2. Il coinvolgimento del B. B. (individuato come uno degli aggressori dal solo F. F.), oltre a quello del A. A. e del D. D. (sulle quali posizioni concordano le affermazioni dell'F. F. e della N. N.), nel sequestro di persona consumato a danno dell'F. F., era riscontrato dalla sua presenza sul posto come rilevata nell'ordine di servizio.
La sua mancata individuazione da parte della teste N. N. non era di tale spessore da confutare la diversa indicazione formulata dall'F. F. medesimo.
Il delitto si era configurato a seguito dell'avvenuto ammanettamento, del tutto ingiustificato.
2. Propongono distinti ricorsi tutti gli imputati, a mezzo dei rispettivi difensori.
2.1. Gli Avv.ti Q. Q. e R. R., per A. A., articolano cinque motivi di ricorso.
2.1.1. Con il primo deducono la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per i reati ascritti al ricorrente ai capi A, D ed F.
Lo si era ritenuto colpevole sostanzialmente solo per la funzione di comando rivestita.
Non si era adeguatamente valutato il dolo del delitto contestato al capo D, il trattenimento del E. E. nella cella, considerando poi che i giudici del merito si erano contraddetti avendo il Tribunale limitato la consumazione dello stesso al periodo di trattenimento in cella (circa mezz'ora) e avendolo, invece, la Corte ampliato fino alla successiva uscita del E. E. dalla caserma (qualche ora).
Si deve pertanto considerare il solo periodo di detenzione in cella, rispetto al quale non si era sufficientemente sondato il dolo del prevenuto, considerando che il maresciallo ben avrebbe potuto ritenere che sussistessero gli estremi di un arresto in flagranza, accorgendosi poi dell'errore in cui era caduto.
2.1.2. Con il secondo motivo lamentano la violazione di legge ed il vizio di motivazione ancora in ordine al fatto contestato al capo D, sotto il profilo della mancata riqualificazione dello stesso nell'ipotesi punita dall'art. 606 cod. pen.
Proprio in considerazione del fatto che il trattenimento in cella poteva essere, in ipotesi, giustificato da quanto era avvenuto nel corso della valutazione, da parte degli operanti, della sussistenza del reato di guida in stato di ebbrezza (Cass. nn. 30971/2015 e 11071/2014).
2.1.3. Con il terzo motivo eccepiscono la violazione di legge ed il difetto di motivazione in riferimento all'imputazione di falso, di cui al capo F, nella parte in cui era stata immutata l'originaria accusa, ritenendo contestata, con evidenti effetti sulla dosimetria della pena, la circostanza aggravante prevista dal secondo comma dell'art. 476 cod. pen.
Nell'imputazione, infatti, non si rinveniva elemento alcuno che facesse ritenere che la fidefacenza dell'atto fosse stata ascritta al ricorrente.
2.1.4. Con il quarto motivo deducono la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all'avvenuto riconoscimento della circostanza aggravante prevista dall'art. 583 cod. pen., contestata al capo A.
Alle lesioni fisiche patite dal E. E. era stata inizialmente attribuita una prognosi di giorni 15. Non si erano poi raccolti elementi di prova tali da poter affermare che la patologia psichica, che si era assunto essere stata provocata al E. E. con la condotta descritta al capo A, e consumata anche, in ipotesi d'accusa, dal ricorrente, fosse realmente da questa derivata.
Non erano sufficienti, ad attestarlo, le affermazioni contenute nella relazione medica del dott. M. M.
Né si era dimostrato che l'imputato potesse prevedere un tale esito.
2.1.5. Con il quinto motivo lamentano il difetto di motivazione in riferimento alla dosimetria della pena ed al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
La motivazione sul punto era del tutto generica e non si era tenuto conto dell'assoluzione del prevenuto da alcune delle accuse mossegli, degli encomi ricevuti durante il lungo servizio prestato nell'Arma, della ridotta gravità dell'episodio di sequestro di persona, dalle particolarità dei fatti ascrittigli, in specie rispetto al capo F, un falso consistito nella sola alterazione dei luoghi e dei tempi del comunque avvenuto controllo del tasso alcolemico.
2.2. Gli Avv.ti S. S. e T. T., con atti distinti ma di analogo contenuto, per B. B., articolano undici motivi.
2.2.1. Con il primo lamentano il difetto di motivazione per la mancata considerazione della relazione del carabiniere L. L. e della deposizione del teste I. I., dalle quali si poteva evincere come E. E., al momento di tornare nella propria abitazione, non presentasse alcuna lesione al volto.
2.2.2. Con il secondo motivo deducono il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta colpevolezza del ricorrente per il delitto contestatogli al capo A, le lesioni personali ipoteticamente patite dal E. E.
Le stesse dichiarazioni della persona offesa, infatti, non avevano trovato adeguato riscontro nelle deposizioni dei testi G. G. e H. H. E. E. stesso aveva affermato che B. B. non l'aveva percosso.
Il coimputato L. L., nella sua relazione di servizio, aveva escluso che B. B. l'avesse percosso.
2.2.3. Con il terzo motivo lamentano il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta configurabilità della circostanza aggravante contestata al capo A.
Dalla consulenza tecnica redatta dai dottori M. M. e U. U. non era possibile dedurre che la sindrome post traumatica da stress potesse essere ricollegata alla condotta degli imputati, considerando anche che la patologia stessa era stata solo riferita dal paziente e che i parametri vitali del medesimo, al momento dell'accertamento, erano rientrati nella norma.
2.2.4. Con il quarto motivo eccepiscono il difetto di motivazione in riferimento al delitto di cui al capo B, contestato ai sensi dell'art. 609 cod. pen., la perquisizione che si assume arbitrariamente effettuata dal B. B. sull'autovettura del E. E.
I sospetti nutriti dal E. E. (che aveva visto B. B. togliersi i guanti in lattice ed aveva poi notato lo spostamento di alcuni oggetti all'interno dell'abitacolo della vettura) erano stati smentiti dallo stesso imputato che aveva ribattuto, nell'immediatezza del fatto e quindi in epoca non sospetta, come non gli avesse "toccato" l'auto, così anche confutando l'assunto della Corte che aveva erroneamente osservato come E. E. avesse riferito che B. B., alle sue proteste, non avrebbe replicato.
2.2.5. Con il quinto motivo lamentano la violazione di legge in ordine alla qualificazione giuridica del fatto descritto al capo B.
Nella pronuncia Cass. n. 8031/2017 si richiede, nella perquisizione ad iniziativa della polizia giudiziaria, per la configurazione del delitto previsto dall'art. 609 cod. pen. una totale mancanza dei presupposti di legge che, nel caso specifico, non si era concretata, essendo solo stata omessa la redazione del relativo verbale.
2.2.6. Con il sesto motivo eccepiscono il vizio di motivazione in riferimento alla ritenuta sussistenza del delitto di falso descritto al capo F, nonostante l'atto incriminato non divergesse in sostanza dal vero e dovesse ritenersi pertanto concretata l'ipotesi prevista dall'art. 49, comma 1, cod. pen. (l'erronea supposizione che il fatto costituisca reato).
Era infatti pacifico che G. G. avesse condotto la propria autovettura fino alla Stazione e fosse risultato positivo all'alcoltest. Era irrilevante il fatto che gli operanti avessero effettivamente visto che lo stesso, prima di essere sottoposto al controllo, si fosse trovato alla guida della vettura.
2.2.7. Con il settimo motivo deducono la violazione di legge, sempre in relazione al falso contestato al capo F, che si doveva, invece, ritenere un falso innocuo.
Le contestate alterazioni erano irrilevanti a fronte della veridicità del contenuto essenziale dell'atto, la contestata guida in stato di ebbrezza.
Irrilevante era l'eventuale ulteriore finalità di giustificare la permanenza del G. G. in caserma.
2.2.8. Con l'ottavo motivo lamentano la violazione di legge ed il vizio di motivazione ancora in ordine al delitto di falso contestato al capo F, non avendo la Corte territoriale considerato il motivo di appello formulato sulla non punibilità della condotta per il principio del nemo tenetur se detegere.
Riferendo, infatti, il vero, il ricorrente avrebbe quantomeno confessato la commissione del delitto previsto dall'art. 328 cod. pen.
2.2.9. Con il nono motivo denunciano la violazione di legge in relazione al difetto di correlazione fra l'accusa e la sentenza, in ordine alla collocazione temporale del fatto descritto al capo I.
La data del commesso reato era stata indicata in imputazione come la notte fra il 6 ed il 7 novembre 2010 e, invece, in sentenza lo si era ritenuto consumato nell'estate del 2010.
La risposta della Corte distrettuale sullo specifico motivo di appello era stata apodittica e pertanto apparente.
2.2.10. Con il decimo motivo deducono il difetto di motivazione in riferimento alla ritenuta responsabilità concorsuale del B. B. in ordine al reato contestato al capo I, avendo sul punto la Corte di merito risposto senza tenere conto delle argomentazioni difensive - l'imputato era sopraggiunto nel corso della complessiva condotta di illecito trattenimento dell'F. F. senza quindi potersi rendere adeguato conto della sua illiceità - limitandosi ad affermare che costui, pur giungendo in un secondo momento, doveva, comunque, essere considerato responsabile del delitto la cui permanenza era anche in tale momento in corso.
2.2.11. Con l'ultimo motivo denunciano il vizio di motivazione in ordine alla misura della pena ed al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Si era valutata la sola gravità del fatto e non l'incensuratezza del prevenuto ed il fatto che le condotte del B. B. erano state determinate dalla necessità di obbedire agli ordini del proprio superiore gerarchico.
2.3. L'Avv. V. V., per C. C., articola tre motivi di censura.
2.3.1. Con il primo deduce il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità del prevenuto per il delitto di cui al capo D, commesso in danno del E. E.
I giudici del merito avevano travisato la prova. Per il Tribunale, il C. C. era stato presente in Stazione nell'intero lasso di tempo in cui E. E. era stato costretto a rimanervi. Dopo la presunta perquisizione però, era rientrato il solo B. B. e non il C. C., che era ricomparso solo dopo il pestaggio del E. E. da parte dei coimputati, come si evince dalla relazione del L. L. e dalla deposizione del Z. Z. (un soggetto che, quella stessa notte, era stato sottoposto ad un controllo di polizia).
Neppure E. E. si era detto certo del fatto che anche C. C. l'avesse colpito. Quest'ultimo pertanto non avrebbe potuto neppure rendersi conto del fatto che l'ordine ricevuto dal A. A., di condurlo in cella, era, in ipotesi, illegittimo.
Anche la Corte d'appello aveva travisato la prova. Considerando innanzitutto inattendibile la relazione del L. L. Dimenticando però che erano stati gli stessi E. E. e G. G. ad escludere la presenza del C. C. quando era iniziato il pestaggio. E che E. E. stesso aveva riferito quanto dettogli dal C. C., di ricordarsi che lui non l'aveva percosso.
La Corte aveva poi utilizzato un dato non evidenziato neppure dal Tribunale, e l'aveva anche travisato, l'affermazione del A. A., in una conversazione intercettata, che, al momento dell'arrivo in caserma del G. G., i militari presenti fossero i quattro di turno e il piantone. In realtà invece era stato l'interlocutore ad affermarlo, per averlo saputo de relato.
In conclusione, la Corte di merito non aveva accertato quanto l'incostante presenza del C. C. in Stazione avesse potuto incidere sulla sua consapevolezza circa l'illegalità del trattenimento.
2.3.2. Con il secondo motivo lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento dell'ipotesi dell'errore di fatto, considerando che il prevenuto doveva comunque obbedire all'ordine del superiore gerarchico, ordine che non vi erano concrete ragioni per ritenere frutto) di manifesta arbitrarietà, anche ricordando la ridotta presenza del C. C. in caserma quella notte, l'assenza di alcun reale "spatium deliberandi" e l'estraneità del medesimo alle condotte concretanti gli altri delitti consumati ai danni del E. E. e del G. G.
2.3.3. Con il terzo motivo censura la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta corresponsabilità del C. C. nel delitto di falso contestato al capo F, afferente attività che erano state compiute nel periodo di tempo nel quale il ricorrente non era neppure presente in Stazione.
Non era così possibile ritenere tutti i sottoscrittori degli atti parimenti consapevoli della falsità degli stessi ed animati dalla volontà di riferire le attività compiute in modo non rispondente al vero.
L'imputato avrebbe realmente potuto ritenere che G. G. fosse stato sottoposto all'alcoltest anche in un luogo diverso dalla caserma. Sempre considerando la sua già sottolineata assenza dalla medesima.
Si sarebbero dovute scindere le varie posizioni dei sottoscrittori per comprendere chi di essi avesse consapevolmente attestato il falso (Cass. n. 33218/2012).
Si doveva poi considerare come il falso fosse del tutto innocuo posto che si era comunque accertato che G. G. aveva condotto l'autovettura in stato di ebbrezza.
2.4. Gli Avv.ti S. S. e S. M., per D. D., propongono distinti ricorsi.
2.4.1. L'Avv. S. S. articola nove motivi che, in parte, riprendono le argomentazioni sviluppate per il coimputato B. B.
E, quindi, con il primo motivo, lamenta il difetto di motivazione per la mancata considerazione della relazione L. L. e della deposizione I. I. dalle quali si doveva evincere che E. E., uscito dalla caserma, non presentava alcuna lesione al volto.
2.4.2. Con il secondo motivo deduce il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta colpevolezza del ricorrente in ordine al delitto contestatogli al capo A, di lesioni personali.
Le dichiarazioni della persona offesa E. E., infatti, non avevano trovato adeguato riscontro nelle deposizioni dei testi G. G. e H. H. Lo stesso E. E. aveva affermato che B. B. non l'aveva percosso.
Il coimputato L. L., nella sua relazione di servizio, aveva escluso che il ricorrente l'avesse colpito.
2.4.3. Con il terzo motivo lamenta il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta configurabilità della circostanza aggravante contestata al capo A.
Dalla consulenza redatta dai dottori M. M. e U. U. non era possibile dedurre che la sindrome post traumatica da stress potesse essere ricollegata alla condotta degli imputati, considerato che la stessa era stata solo riferita e che i parametri vitali del E. E., al momento dell'accertamento, erano rientrati nella norma.
2.4.4. Con il quarto motivo eccepisce il vizio di motivazione in riferimento alla ritenuta sussistenza del delitto di falso descritto al capo F, nonostante l'atto incriminato non divergesse in sostanza dal vero e dovesse, inoltre, ritenersi configurata l'ipotesi prevista dall'art. 49, comma 1, cod. pen. (il reato putativo).
Era infatti pacifico che G. G. aveva condotto la propria autovettura fino alla Stazione ed era risultato positivo all'alcoltest. Era irrilevante il fatto che gli operanti avessero effettivamente visto se lo stesso, prima di essere sottoposto al controllo, si fosse trovato alla guida della vettura.
2.4.5. Con il quinto motivo deduce la violazione di legge sempre in relazione alla dichiarata colpevolezza per il delitto contestato al capo F, pur trattandosi di falso innocuo.
Le contestate alterazioni erano irrilevanti a fronte della veridicità del contenuto essenziale dell'atto, la rilevata guida in stato di ebbrezza. Inconferente era anche l'eventuale ulteriore finalità, giustificare la permanenza del G. G. in caserma.
2.4.6. Con il sesto motivo lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione ancora in ordine al delitto di falso contestato al capo F, non avendo la Corte di merito considerato il motivo di appello formulato sulla insussistenza del fatto in osservanza del principio del nemo tenetur se detegere.
Riferendo, infatti, il vero, il ricorrente avrebbe quantomeno confessato la commissione del delitto previsto dall'art. 328 cod. pen.
2.4.7. Con il settimo motivo denuncia la violazione di legge in relazione al difetto di correlazione fra l'accusa e la sentenza in ordine alla collocazione temporale del fatto descritto al capo I.
La data del commesso reato era stata indicata, nell'originaria imputazione, nella notte fra il 6 ed il 7 novembre 2010, e, invece, nelle sentenze di merito si era ritenuto il ricorrente responsabile per una condotta consumata nell'estate del 2010.
La risposta della Corte sul punto era stata apodittica ed apparente.
2.4.8. Con l'ottavo motivo deduce il difetto di motivazione in riferimento alla ritenuta responsabilità del D. D. in ordine al reato contestato al capo I, avendo sul punto la Corte di merito risposto senza tenere conto delle argomentazioni difensive - l'imputato era sopraggiunto nel corso della complessiva condotta di illecito trattenimento dell'F. F. senza quindi potersi rendere adeguato conto della sua illiceità - essendosi la stessa limitata ad osservare che doveva rispondere del reato perché, quando era tornato in caserma, il delitto permanente di sequestro di persona, consumato a danno di F. F., era ancora in corso di consumazione.
2.4.9. Con l'ultimo motivo denuncia il vizio di motivazione in ordine alla misura della pena ed al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Si era valutata la sola gravità del fatto e non l'incensuratezza del prevenuto ed il fatto che le sue condotte erano state determinate dalla necessità di obbedire all'ordine del proprio superiore gerarchico.
2.4.10. L'Avv. S. M. articola sei motivi di ricorso, con il primo dei quali lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità del ricorrente per l'addebito di lesioni, contestatogli al capo A.
Lo stesso E. E. aveva ammesso di non essere in grado di identificare tutti coloro che l'avevano percosso, ed aveva anche aggiunto che il D. D. non l'aveva toccato.
Così come aveva attestato anche il carabiniere L. L. nella sua relazione.
Propalazione che non avevano trovato adeguata smentita nella ricostruzione del H. H. che non si era espresso in termini certi, proprio sul D. D.
2.4.11. Con il secondo motivo lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione in riferimento alla durata delle lesioni e quindi alla ritenuta sussistenza della relativa circostanza aggravante.
La consulenza d'accusa non aveva chiarito come il disturbo da stress potesse essere stato generato dall'evento patito dal E. E. che, peraltro, aveva anche ammesso di non avere assunto i medicinali prescrittigli.
2.4.12. Con il terzo motivo denuncia la violazione di legge ed il difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza in capo al ricorrente dell'elemento soggettivo del reato di falso contestato al capo F.
La falsità dell'atto era consistita nel non avere dato conto del fatto che G. G. era stato sottoposto all'alcoltest solo in caserma, accertamento che sarebbe, secondo l'ipotesi d'accusa, avvenuto per ritorsione, posto che questi vi si era recato per sincerarsi delle condizioni di E. E.
Vicenda alla quale però il ricorrente era rimasto estraneo, così da non potersi avvedere della rilevanza del falso.
2.4.13. Con il quarto motivo deduce il difetto di correlazione fra l'accusa ed il fatto ritenuto in sentenza in relazione al capo I, per la sua diversa collocazione temporale, in imputazione indicata nella notte fra il 6 ed il 7 novembre 2010, nelle sentenze ricondotta al giugno dello stesso anno.
Il pubblico ministero aveva richiesto la modifica dell'imputazione ma non risulta che gli imputati presenti fossero stati informati del diritto di richiedere un termine a difesa.
Non si era verificata alcuna decadenza trattandosi di nullità a regime intermedio, verificatasi in prime cure e tempestivamente eccepita con i motivi di appello.
2.4.14. Con il quinto motivo denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla partecipazione concorsuale del D. D. al delitto di sequestro di persona, ai danni dell'F. F., contestato al capo I.
La persona offesa era stata trasferita in caserma solo su ordine del superiore gerarchico, il maresciallo A. A., e questi aveva giustificato il suo ordine con la necessità di provvedere alla sua identificazione. L'affermazione della Corte secondo la quale tale accompagnamento non era necessario perché tutti a Pantelleria si conoscevano era generica ed inconferente.
Non era comunque evidente l'arbitrarietà di tale disposizione, impartita al ricorrente dal proprio superiore gerarchico.
A quanto poi era avvenuto in caserma, D. D. era rimasto del tutto estraneo.
Al più si era trattato di condotta costituente una diversa ipotesi di reato, le fattispecie previste dagli artt. 606, 609 e 608 cod. pen.
2.4.15. Con il sesto motivo deduce la violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche ed alla determinazione della pena in misura diversa dal minimo edittale.
Non si era, infatti, tenuto conto del ruolo secondario rivestito, nelle vicende per cui è processo, dal D. D.
Considerato in diritto
I ricorsi promossi nell'interesse di tutti gli odierni imputati sono inammissibili.
1. Si osserva, innanzitutto, come debba procedersi ad una risposta unitaria delle doglianze spese dalle difese dei singoli ricorrenti in ordine alla tenuta del complessivo quadro probatorio relativo alla singole imputazioni, elevate in concorso fra i medesimi, perché tutte volte a porre in dubbio l'attendibilità dei testi indotti dall'accusa - ed in particolare le deposizioni delle persone offese - e la conseguente ricostruzione di quanto accaduto la notte del 10 luglio 2011, a danno di E. E. e G. G., ed il 7 novembre 2010 a danno dell'F. F.
1.1. A tal proposito, in punto di diritto ed in via preliminare, occorre ricordare che:
- l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali;
- esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (per tutte: Sez. Un., 30/4-2/7/1997, n. 6402, Dessimone, Rv. 207944; tra le più recenti: Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003 - 06/02/2004, Elia, Rv. 229369);
- le doglianze proposte non possono, pertanto, tendere ad ottenere una inammissibile ricostruzione dei fatti mediante criteri di valutazione diversi da quelli adottati dal giudice di merito, il quale, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha esplicitato le ragioni del suo convincimento.
Ed è alla luce di tali principi di diritto che questo Collegio ha ritenuto inammissibili i motivi proposti nei vari ricorsi (che più avanti si individueranno) afferenti, appunto, la ricostruzione delle singole condotte costituenti reato, descritte in imputazione, e la responsabilità dei singoli ricorrenti.
2. Muovendo dal capo A della rubrica - le lesioni aggravate inferte al E. E., delle quali sono accusati i ricorrenti A. A., B. B. e D. D. - la motivazione offerta sul punto dalla Corte territoriale non mostra le manifeste discrasie logiche lamentate nelle censure difensive.
2.1. Il compendio probatorio si era formato sulle dettagliate dichiarazioni del teste persona offesa E. E. che aveva riferito le plurime percosse patite, in particolare ed a più riprese dal maresciallo A. A., ma anche, quando era stato contemporaneamente colpito da più carabinieri, dal B. B. e dal D. D.
Nel corso delle indagini (più incerto, comprensibilmente, era stato il riconoscimento in dibattimento, avvenuto a tre anni dal fatto), aveva riconosciuto in foto i suoi aggressori nel A. A., nel B. B. e nel D. D. (pur se questi "andava e veniva").
Una ricostruzione, accurata nei dettagli, che aveva trovato pieno riscontro nella deposizione dell'amico G. G., che si recato in caserma per fornirgli eventuale aiuto (presumendo il ritiro della patente e non certo l'aggressione di cui, prima E. E. e poi lui stesso, sarebbero rimasti vittima), che aveva riferito delle percosse ricevute dal E. E. ad opera, appunto, del A. A., del B. B. e del D. D., che riconosceva, tutti, nelle rispettive effigie fotografiche.
Ulteriore riscontro dichiarativo proveniva dalle propalazioni del teste (non anche persona offesa), H. H. che aveva anch'egli riferito delle percosse patite dal E. E., individuando gli aggressori nel A. A. e nel B. B., non dicendosi sicuro dell'intervento del D. D., anch'egli riconoscendoli, tutti, nelle foto che gli erano state rammostrate.
A tale complessivo quadro si aggiungevano le emergenze del certificato medico rilasciato al E. E., recante una prognosi di giorni 7 salvo complicazioni, ed una significativa diagnosi di "lesioni multiple da aggressione" in plurime sedi corporee, confermata in dibattimento dal medico curante, e dalle fotografie che lo stesso E. E. quello stesso giorno si era scattato.
2.2. A fronte di tale inequivoco quadro probatorio, le censure mosse dalle difese appaiono manifestamente prive di fondamento.
Il contenuto della relazione del piantone Stefano L. L. era, ovviamente, tesa a minimizzare l'accaduto e soprattutto le sue stesse responsabilità.
Il teste I. I., come riporta la sentenza impugnata a pag. 8, lungi dall'avere escluso che E. E. presentasse delle lesioni al volto, come assumono le difese, non solo aveva raccolto le immediate confidenze del E. E. circa la patita aggressione da parte dei carabinieri, ma aveva anche potuto notare come lo stesso presentasse un labbro gonfio e versasse in uno stato di forte agitazione emotiva (così, anche, da confermare quanto poi sarà accertato dal consulente della pubblica accusa circa lo stato di stress emotivo cagionato al E. E. dal patito pestaggio).
L'accertata responsabilità del A. A. non discendeva certo dal ruolo apicale, rivestito, in quelle ore, in caserma, posto che, al più, di tale ruolo egli si era avvalso per schiaffeggiare, personalmente e del tutto ingiustificatamente, più volte, il E. E.
Le censure relative alle assunte discrasie nel narrato dei testi E. E., G. G. e H. H., difettano di specificità interna ed esterna, in quanto, per un verso, non sono stati adeguatamente individuati gli elementi di contrasto fra le varie deposizioni e, per l'altro, non sono state allegate ai ricorsi copie integrali delle medesime al fine di consentire a questa Corte di valutare la fondatezza delle doglianze.
2.3. Devono, conseguentemente, dichiararsi inammissibili il primo motivo del ricorso A. A. (in ordine al capo A), il primo ed il secondo del ricorso B. B. e del ricorso D. D. (Avv. S. S.), il primo del ricorso D. D. (Avv. S. M.).
2.3. La persuasività della prova della durata delle lesioni inferte al E. E. in oltre quaranta giorni - e la conseguente configurabilità della circostanza aggravante ex art. 583, comma 1, n. 1, cod. pen. - è contestata nei ricorsi A. A., nel quarto motivo, B. B., nel terzo motivo, D. D., nel terzo motivo dell'Avv. S. S. e nel secondo motivo dell'Avv. S. M.
Le argomentazioni variamente spese negli indicati motivi sono tutte inammissibili o per la loro genericità o per la loro manifesta infondatezza.
Il difetto di specificità muove dalla mancata considerazione della motivazione sul punto dei giudici del merito, ed in particolare della Corte territoriale - che aveva osservato come le censure mosse sul punto con gli atti di appello fossero limitate ad una generica contestazione della ricollegabilità del disturbo individuato dal consulente tecnico dell'accusa all'evento lesivo consumato dagli imputati - posto che nei ricorsi non si affrontano, ancora una volta, le argomentazioni tecniche poste a fondamento della relazione del consulente della pubblica accusa, limitandosi ad affermarne la loro, presunta, inadeguatezza.
In realtà, invece, dalla citata relazione, versata in atti (e che le difese aveva rinunciato ad approfondire nel contraddittorio), si deduce come il consulente, all'esito di un'accurata visita del E. E., avesse diagnosticato, a suo carico, un "disturbo cronico post traumatico da stress ", riconosciuto dal manuale DSM-IV-TR, un disturbo che lo stesso consulente affermava essere sintomatico (tanto da derivarne "manifesta ipervigilanza con tendenza volontaria ad evitare pensieri od emozioni che riguardano l'evento traumatico occorsogli" così che "tale condizione di evitamento determina riduzione della reattività verso il mondo esterno") così da dare origine ad una "condizione patologica neuropsichiatrica".
Si era pertanto accertato che il diagnosticato stato mentale avesse causato al E. E. una limitazione funzionale significativa, alla sua vita di relazione.
Il consulente annotava poi come il diagnosticato disturbo fosse in stretta correlazione causale con quanto patito dal E. E. il 10 luglio del 2011 (e, quindi, con le patite lesioni).
Tutti fatti e giudizi che i ricorsi, come si è detto, non hanno affrontato, così non demolendone la persuasività scientifica e logica.
Va, inoltre, ricordato, per rispondere ad un'altra obiezione delle difese, che la mancata assunzione dei farmaci da parte del E. E. non costituisce quel fatto imprevedibile che solo consente di interrompere il nesso di causalità (Sez. 5, n. 35709 del 02/07/2014, Desogus, Rv. 260315, seppure in tema di omicidio preterintenzionale) fra la condotta e l'evento.
E va, infine, sottolineato come la diagnosi del consulente era per la "cronicità" del disturbo, ancora presente a tre mesi di distanza dal fatto, e, quindi, per un lasso di tempo ben superiore agli oltre quaranta giorni che concretano l'aggravante, che era stata così congruamente ritenuta.
3. Il delitto contestato al capo B - l'arbitraria perquisizione dell'autovettura del E. E. - al solo B. B. è oggetto delle censure argomentate nel ricorso del medesimo, nel quarto e nel quinto motivo.
La ricostruzione dell'accaduto è stata tratta, dalla Corte di merito (ed ancor prima dal Tribunale), dalla deposizione della persona offesa, Vito Antonio E. E., già ritenuto attendibile in ordine a tutte le ulteriori condotte consumate a suo danno.
I giudici del merito, con motivazioni prive di manifeste aporie logiche, avevano considerato che l'avere, il E. E., notato il carabiniere B. B. rientrare in caserma e togliersi i guanti in lattice, trovando poi, nonostante questi avesse negato di essersi introdotto nella sua autovettura, l'abitacolo in subbuglio, costituissero elementi di prova, storica e logica, sufficienti per ritenere, anche in assenza di alternativa spiegazione dell'imputato, che questi avesse compiuto la condotta contestatagli.
Quanto alla qualificazione giuridica di tale condotta si deve considerare come questa Corte abbia già avuto modo di precisare (da ultimo: Sez. 5, n. 8031 del 15/12/2016, dep. 20/02/2017, Calligaris, Rv. 269031) che, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 609 cod. pen., la perquisizione disposta dal Pubblico Ministero, o d'iniziativa dalla polizia giudiziaria, può ritenersi "arbitraria" solo nelle ipotesi di una totale assenza dei requisiti necessari al compimento dell'atto o con modalità che fuoriescano totalmente da quelle ordinarie di esplicazione del pubblico potere, tali da connotare la condotta del deliberato proposito del magistrato di eccedere le proprie attribuzioni per finalità diverse da quelle attribuitegli in ragione dei suoi pubblici poteri.
Ed è allora evidente come, nell'odierno caso concreto, si versasse in tale ipotesi, di assoluta arbitrarietà dell'atto, posto che B. B. stava, al più, procedendo ad accertamenti relativi ad un'ipotesi di guida in stato di ebbrezza alcolica, così da porsi, il realizzato atto di ricerca della prova, totalmente e riconoscibilmente, al di fuori delle ipotesi previste dalla legge, l'art. 352 del codice di rito (posto che l'ipotizzato reato poteva essere accertato solo con gli appositi test e non certo con il rinvenimento di oggetti che, peraltro lo steso B. B. nega di avere ricercato) o le norme in tema di ricerca di armi (art. 41 TULPS) e di sostanze stupefacenti (art. 103 d.P.R. n. 309/1990).
Arbitrarietà, della perquisizione, di cui B. B. era così consapevole da non averne neppure redatto il relativo verbale.
4. Al capo D si è contestato agli imputati A. A. e C. C. il delitto di sequestro di persona, sempre consumato ai danni del E. E., per il periodo di tempo in cui il medesimo era stato trattenuto non in caserma ma in cella (la discrasia sul punto fra Tribunale e Corte d'appello risulta irrilevante ai fini del decidere dovendo comunque aversi riguardo al minor periodo fissato dai giudici del merito).
A tal proposito, si deve comunque ricordare che, ai fini dell'integrazione del delitto di sequestro di persona, è sufficiente l'impossibilità della vittima di recuperare la propria libertà di movimento anche relativa, a nulla rilevando la durata dello stato di privazione della libertà, che può anche essere breve, a condizione che sia giuridicamente apprezzabile (ex plurimis: Sez. 5, n. 28509 del 13/04/2010, Rv. 247884).
Così che la mezz'ora in cui E. E. è stato rinchiuso in cella certamente concreta un tempo apprezzabile in cui la sua libertà personale aveva trovato un'ingiusta limitazione.
4.1. Giova, inoltre, ricordare come, in tema di discrimine fra il sequestro di persona con abuso delle funzioni e l'arresto illegale punito dall'art. 606 cod. pen. la pronuncia di questa Corte - Sez. 5, n. 30971 del 10/04/2015, Rv. 264837 - abbia composto la precedente dicotomia di orientamenti (rappresentata, fra le altre, dalla sentenza della Sez. 6, n. 23423 del 26/03/2010, Giva, Rv. 247383 e dalla pronuncia della Sez. 5, n. 11071 del 09/10/2014, dep. 16/03/2015, Solimene, Rv. 262874, che l'avevano ricondotto, la prima all'elemento soggettivo del reato, la seconda all'elemento oggettivo), affermando che il delitto di arresto illegale si differenzia dal sequestro di persona commesso da un pubblico ufficiale con abuso di poteri inerenti alle sue funzioni, sia quanto all'elemento oggettivo, poiché, nel primo caso, l'abuso deve riguardare specificamente l'esercizio di un potere di coercizione riconosciuto e disciplinato dalla legge, sia quanto all'elemento soggettivo, poiché, per abusare del potere di arresto, è necessario che la volontà dell'agente sia diretta sin dall'inizio a mettere il soggetto illegalmente ristretto a disposizione dell'autorità giudiziaria.
Così che, in applicazione di tale principio di diritto, risulta evidente la correttezza della qualificazione giuridica del fatto, negli esatti termini contestati ai sensi dell'art. 605, comma 2 n. 2, cod. pen., essendo del tutto assente, e neppure concretamente ipotizzata o ipotizzabile, l'ipotesi di un eventuale arresto a seguito di un'accertanda guida in stato di ebbrezza.
Né si era in alcun modo prospettata la configurabilità, da ultimo prospettata dalle difese, di una condotta di resistenza da parte del E. E., posto che, a dire di tutti i presenti al momento del fatto, non ultimi gli stessi imputati, questi mai aveva reagito alle percosse ricevute, limitandosi a rannicchiarsi su se stesso per ricevere meno colpi possibili.
4.2. Quanto alle responsabilità dei singoli, non vi è dubbio alcuno sulla non manifesta illogicità della sentenza impugnata in ordine al coinvolgimento del maresciallo A. A. che, dopo avere colpito più volte il E. E., e dopo avere permesso anche ai suoi sottoposti di fare altrettanto, aveva dato ordine, ancora in modo del tutto ingiustificato in assenza di qualsivoglia reazione del predetto, di rinchiuderlo nella cella di sicurezza.
Operazione che era stata materialmente compiuta dal carabiniere C. C. che era certamente consapevole dell'arbitrarietà della disposta limitazione della libertà personale, posto che, poco prima, aveva assistito al pestaggio del E. E., anch'esso talmente privo di ragione alcuna, tanto da indurlo ad assicurarsi che la vittima non l'avrebbe denunciato per la patita sopraffazione, non avendovi, a suo dire, direttamente partecipato.
Così che la sua incostante presenza in caserma certo non gli aveva impedito di rendersi perfetto conto delle plurime angherie sofferte dal E. E., una delle quali era proprio consistita nel rinchiuderlo nella cella, privandolo, per un tempo apprezzabilmente lungo, della sua libertà di movimento.
Così da non poter essere incorso in alcun errore di fatto circa la manifesta arbitrarietà dell'ordine del superiore gerarchico.
Sono, pertanto, manifestamente infondati i motivi primo (in relazione al capo D) e secondo del ricorso A. A. e primo e secondo del ricorso C. C.
5. Anche sulla condotta descritta al capo F - il falso ideologico commesso nell'annotazione di polizia giudiziaria, nel verbale di elezione del domicilio e di nomina del difensore, redatti nei confronti di G. G., per avere falsamente attestato di avere proceduto al controllo, su strada, dell'autovettura dal medesimo condotta, con a bordo H. H., e di avere eseguito sul posto l'accertamento preliminare, risultato positivo, mentre, invece, il G. G. era stato sottoposto al solo esame alcolimetrico in caserma, ove si era peraltro recato per prestare aiuto all'amico E. E. - ascritta a tutti i firmatari degli atti, A. A., B. B., C. C. e D. D., i motivi di ricorso risultano inammissibili sia perché versati in fatto, sia perché generici (non affrontando adeguatamente la motivazione spesa sul punto nella sentenza impugnata e nella decisione di prime cure) e, anche, manifestamente infondati.
5.1. Deve, innanzitutto, ricordarsi che, con consolidato orientamento giurisprudenziale, questa Corte ha precisato che:
- in tema di falso ideologico in atto pubblico, la sottoscrizione del verbale di arresto, in mancanza di adeguate specificazioni, attribuisce a ciascuno dei sottoscrittori l'attestazione della veridicità delle indicazioni ivi contenute, sia quanto all'operato di ciascuno, sia quanto ai fatti verificatisi e percepiti come giustificativi dell'esecuzione dell'attività di polizia giudiziaria ivi documentata (Sez. 5, n. 41848 del 17/05/2018, Ferraro, Rv. 275132);
- la sottoscrizione del verbale di arresto, in mancanza di adeguate specificazioni, attribuisce a ciascuno dei sottoscrittori l'attestazione della veridicità delle indicazioni ivi contenute, sia quanto all'operato di ciascuno, sia quanto ai fatti verificatisi e percepiti come giustificativi dell'esecuzione dell'attività di polizia giudiziaria ivi documentata (Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012, Luperi, Rv. 253544).
Se è vero che, nelle pronunce citate, l'atto ideologicamente falso è il verbale di arresto, non vi sono però ragioni che facciano propendere per una diversa soluzione quando si tratti di altri atti, redatti dagli appartenenti alle forze dell'ordine, in funzione di agenti o ufficiali di polizia giudiziaria, che siano anch'essi diretti all'autorità giudiziaria, e che siano destinati ad attestarne l'attività svolta nell'espletamento di indagini svolte in relazione alla denunciata commissione di un reato (nel caso di specie la guida in stato di ebbrezza alcolica del G. G.).
Così da vanificare le censure mosse nei ricorsi degli imputati circa la mancata distinzione fra le varie posizione dei firmatari degli stessi (in assenza di qualsivoglia specificazione, negli atti, circa il minor, o diverso, ruolo eventualmente da ciascuno ricoperto), considerando anche che, invero, tutti costoro avevano concorso a commettere i delitti consumati a danno del E. E., costituendone, il falso ideologico commesso a danno del G. G., la logica conseguenza, perché finalizzato sia a punirne l'intervento a favore dell'amico, sia a intaccarne l'attendibilità per quanto potesse in seguito riferire su quanto era accaduto ed aveva visto, in caserma, quella notte.
5.2. Né il realizzato falso ideologico poteva considerarsi innocuo, visto il fine, già ricordato, a cui era destinato, e posto che il mancato effettivo controllo del G. G. alla guida della vettura aveva indubbio rilievo al fine di sostenere l'accusa della contestata guida in stato di ebbrezza. Tanto che il Tribunale (pag. 53) aveva rilevato come lo stesso fosse stato mandato assolto nel relativo giudizio (seppure con sentenza non definitiva).
E, a tal proposito, giova ricordare che questa Corte ha già avuto modo di precisare che il falso innocuo si configura solo in caso di inesistenza dell'oggetto tipico della falsità, di modo che questa riguardi un atto assolutamente privo di valenza probatoria, quale un documento inesistente o assolutamente nullo (Sez. 5, n. 28599 del 07/04/2017, Bautista, Rv. 270245), ipotesi che non ricorre certo nell'odierno caso concreto ove il falso, non riconoscibile come tale (ma solo ad esito delle approfondite indagini che erano state condotte dopo la denuncia del E. E.), aveva comportato l'instaurazione di un procedimento penale su dati probatori non rispondenti al vero, quale il controllo effettivo del G. G. alla guida della propria vettura.
5.3. Va, inoltre, ricordato che questa Corte ha anche precisato come sia inapplicabile la scriminante dell'esercizio del diritto, ex art. 51 cod. pen. - sub specie del principio "nemo tenetur se detegere" - ai reati di falso in atto pubblico; né, in tal caso, sussiste la violazione dell'art. 6 CEDU, il quale nel riconoscere al soggetto il diritto a tacere e a non contribuire alla propria incriminazione a conferma e garanzia irrinunciabile dell'equo processo, opera esclusivamente nell'ambito di un procedimento penale già attivato e non nella fase ad esso precedente e relativa alla commissione di un reato, stante la sua "ratio" consistente nella protezione dell'imputato da coercizioni abusive da parte dell'autorità (Sez. 5, n. 12697 del 20/11/2014, dep. 25/03/2015, Rv. 263034).
Peraltro, le censure afferenti il reato putativo e il principio da ultimo menzionato non risultano neppure proposte con i motivi di appello secondo l'incontestata sintesi fattane nella sentenza impugnata.
Sono, conclusivamente sul punto, inammissibili i motivi primo (sul capo F) del ricorso A. A., sesto, settimo e ottavo del ricorso B. B., terzo del ricorso C. C., quarto, quinto e sesto del ricorso D. D. (Avv. S. S.), terzo dell'ulteriore ricorso D. D. (Avv. S. M.).
5.4. Quanto ancora al delitto di falso contestato al capo F, risulta manifestamente infondato anche il terzo motivo del ricorso A. A., posto che non essendo stata contestata, in imputazione, la circostanza aggravante prevista dall'art. 476, comma 2, cod. pen., non risulta affatto che, della stessa, i giudici del merito abbiano tenuto alcun conto, anche solo al fine di valutare, in particolare la Corte territoriale, la congruità della pena, non essendo affatto decisive sul punto le espressioni utilizzate nella sentenza oggi impugnata sulla fidefacenza degli atti considerati ideologicamente falsi, non avendo, la Corte, mai citato la relativa aggravante, né in ordine alla corretta contestazione dell'addebito, né in relazione, appunto, alla ritenuta congruità della pena inflitta dal primo giudice, che, per parte sua, aveva considerato, senza equivoco alcuno, il solo primo comma dell'art. 476 cod. pen., tanto che aveva individuato come reato più grave, fra quelli attribuiti al A. A., il delitto di sequestro di persona aggravato, laddove, invece lo sarebbe stato il falso, se considerato aggravato, per la maggior misura della pena minima (essendo identica quella massima).
6. L'ultima imputazione, descritta al capo I, riguarda il sequestro di persona, aggravato, consumato ai danni di F. F. in una data che il pubblico ministero ha rifissato, con contestazione suppletiva, in data diversa da quella originariamente contestata, la notte fra il 6 ed il 7 novembre 2010.
6.1. Proprio sulla data del commesso reato sono stati spesi alcuni motivi di ricorso - il nono di B. B., il settimo di D. D. con l'Avv. S. S., il quarto, sempre di D. D., ma con l'Avv. S. M. - che deducono o il difetto di correlazione fra l'accusa e la sentenza (i primi tre) o la nullità intermedia discendente dal mancato avviso all'imputato presente di potersi avvalere del termine a difesa (il ricorso D. D. a firma dell'Avv. S. M.).
Tutte censure manifestamente infondate perché non tengono conto del costante orientamento di questa Corte, seguito dai giudici del merito, secondo il quale:
- la modifica in udienza del capo di imputazione, consistente nella diversa indicazione della data del commesso reato, non costituisce modifica dell'imputazione, rilevante ex art. 516 cod. proc. pen., allorché non comporti alcuna significativa modifica della contestazione, la quale resti immutata nei suoi tratti essenziali, così da non incidere sulla possibilità di individuazione del fatto da parte dell'imputato e sul conseguente esercizio del diritto di difesa (da ultimo, Sez. 5, n. 48879 del 17/09/2018, Rv. 274159);
- e, comunque, deve escludersi la violazione del principio di correlazione tra accusa contestata e decisione adottata nel caso in cui nell'imputazione risulti una data del commesso reato diversa da quella effettiva, a condizione che dagli atti emerga il tempo di consumazione del reato e che l'imputato abbia avuto modo di difendersi e di conoscere tutti i termini della contestazione mossagli (Sez. 2, n. 17879 del 13/03/2014, Pagano, Rv. 260009.
Così che, fermi rimanendo gli elementi essenziali del fatto contestato - mai mutati e perfettamente a conoscenza degli imputati che, sugli stessi, aveva potuto adeguatamente approntare le proprie difese - non si sarebbe potuto riconoscere il difetto di correlazione fra l'accusa originaria ed il fatto ritenuto in sentenza neppure qualora il pubblico ministero non avesse contestato in udienza la modifica della data del delitto ascritto agli imputati così da rendere priva di rilievo alcuno anche l'ulteriore eccezione di nullità, formulata nell'interesse del D. D., sul presunto vizio della contestazione suppletiva (per il mancato avviso ai presenti della possibilità di richiedere un termine a difesa), atto che, come si è visto, non era necessario compiere, considerando, comunque che, se anche tale nullità si fosse verificata, la stessa sarebbe stata sanata dal suo mancato rilievo al momento in cui sarebbe intervenuta (e quindi all'udienza in cui era avvenuta la contestazione), prima del compimento di ogni ulteriore atto difensivo, come prevede l'art. 182, comma 2, cod. proc. pen.
Si è infatti affermato come l'omesso avviso all'imputato della facoltà di chiedere un termine a difesa a fronte della contestazione di un reato connesso integri una nullità a regime intermedio che, in quanto tale, deve essere dedotta dal difensore presente prima di ogni altra difesa (Sez. 3, n. 16848 del 03/02/2010, Cucumazzo, Rv. 246975).
6.2. I motivi di ricorso spesi sulla sussistenza del delitto di sequestro di persona a danno dell'F. F. e sulla responsabilità degli accusati - il decimo di B. B., l'ottavo del ricorso D. D. a firma dell'Avv. S. S., il quinto del ricorso D. D. a firma dell'Avv. S. M. - sono anch'essi inammissibili perché versati in fatto e perché difettano di specificità esterna non affrontando l'intera argomentazione sul punto della sentenza impugnata e della sentenza del primo giudice a cui la medesima si richiama (confermandone l'esito decisorio).
Le doglianze proposte non toccano, innanzitutto, la ricostruzione del fatto offerta dai giudici del merito, sulla base delle concordi dichiarazioni della persona offesa, F. F., della teste oculare della prima parte dell'aggressione consumata dagli imputati a danno del predetto, N. N., di O. O., datore di lavoro della vittima e del fratello, che era intervenuto preso il cognato, il maresciallo P. P., per sottrarre l'F. F. alle vessazioni a cui era, in quello stesso momento, sottoposto.
Né si censura la responsabilità del maresciallo A. A.
Così che i motivi di ricorso si limitano a contestare la prova del concorso, nell'illecita limitazione della libertà personale, dei coimputati, B. B. e D. D., anche in considerazione della loro discontinua presenza nella caserma in cui F. F. era stato condotto e trattenuto.
Concorso che, invece, i giudici del merito, con motivazione priva di manifesti vizi logici, avevano dedotto dallo svolgimento stesso del complessivo accaduto, posto che l'indebita limitazione della libertà della persona offesa era stata preceduta dall'altrettanto ingiustificata aggressione ai suoi danni avvenuta in strada, a cui tutti gli imputati, in abiti borghesi, avevano assistito e partecipato.
Realizzando, così, la medesima progressione criminosa a cui avevano dato luogo l'anno successivo a danno del E. E., passando dalle percosse all'illecito trattenimento in caserma.
Trattenimento che alla luce dei precedenti di questa Corte, citati nel valutare il fondamento dei motivi di ricorso relativi al capo F dell'imputazione, risultava altrettanto privo di giustificazione, così da non poter concretare nessuna delle gradate ipotesi invocate dalle difese.
7. Restano pertanto le sole censure afferenti la dosimetria delle pene inflitte, incentrate in particolare sull'avvenuto diniego delle circostanze attenuanti generiche e sulla ritenuta eccessività delle loro misure.
A tal proposito deve però ricordarsi che:
- quando la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata da motivazione esente da manifesta illogicità è insindacabile in cassazione (Cass., Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Rv. 242419), anche considerato il principio affermato da questa Corte secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Sermone, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane, Rv. 248244);
- la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti e per la continuazione, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 - 04/02/2014, H. H.o, Rv. 259142). Invero, una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. le espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, Denaro, Rv. 245596).
In applicazione di tali principi di diritto sono pertanto inammissibili i motivi spesi sul punto - il quinto di A. A., l'undicesimo di B. B., il nono del ricorso D. D. dell'Avv. S. S., il sesto del ricorso D. D. a firma dell'Avv. S. M. - avendo la Corte territoriale sottolineato la gravità (e reiterazione) dei fatti, in considerazione del ruolo rivestito dagli imputati e dello stato di soggezione in cui si erano trovate le loro vittime.
8. All'inammissibilità dei ricorsi segue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali, delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, E. E. e G. G., che si liquidano, per ciascuna di esse, nella somma, ritenuta equa, indicata in dispositivo, e, versando i medesimi in colpa, della somma di euro 3.000 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000 ciascuno in favore della Cassa delle ammende, oltre alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, che liquida in euro 3.500 per ciascuna parte civile, oltre accessori di legge.
Così deciso, in Roma il 26 febbraio 2020.
Il Presidente: ZAZA
Il Consigliere estensore: SCARLINI
Depositato in Cancelleria l'11 giugno 2020.
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