Cass. pen. sez. III - Sent. 28/11/2019 n. 48413 - Veicoli fuori uso

Cass. pen. sez. III - Sent. 28 novembre 2019, n. 48413

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Presidente: Vito DI NICOLA
Rel. Consigliere: Antonella DI STASI
ha pronunciato la seguente

Sentenza

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 16/04/2019, la Corte di appello di Firenze, confermava la sentenza del 09/03/2017 del Tribunale di Firenze - con la quale A. A. e B. B. erano stati dichiarati responsabili del reato di cui all'art. 110 cod. pen. e 279, comma 1, d.lgs n. 152/2006 in relazione all'art. 269, comma 2, stesso decreto (capo A - perché in concorso tra loro e quali legali rappresentanti della ditta "Impresa XXXXXX di A. A. &C, avente ad oggetto produzione di legname esercitavano tale attività senza aver ottenuto la preventiva autorizzazione alle emissioni in atmosfera) e del reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 256, comma 1 lett. a) d.lgs n. 152/2006 (capo B - perché in concorso tra loro e quali legali rappresentanti della ditta "Impresa XXXXXX di A. A. &C, depositavano in maniera incontrollata rifiuti speciali pericolosi nell'area di pertinenza della ditta, costituiti da mezzo meccanico semovente fuori uso e non bonificato e olio minerale esausto stoccato per periodo superiore ad un anno) e condannati alla pena di mesi sei di arresto ed euro 2.333,00 di ammenda ciascuno.

2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, a mezzo del difensore di fiducia, articolando quattro motivi di seguito enunciati.
Con il primo motivo deducono violazione di legge in relazione all'art. 269 d.lgs n. 152/2006, lamentando che, erroneamente, i Giudici di merito avevano ritenuto che la lavorazione della "cippatura" fosse assimilabile ad un'attività volta a produrre emissioni in atmosfera equiparabili a quelle di uno "stabilimento".
Con il secondo motivo deducono vizio di motivazione, lamentando che i Giudici di merito avevano ritenuto integrato il reato contestato al capo a) sul mero presupposto che un tecnico ARPAT aveva scorto delle polveri di legno all'interno della Impresa XXXXXX durante le operazioni di carico e movimentazione del legname ed aveva mal interpretato la circostanza che l'attività veniva sospesa nei giorni ventosi ritenendo che ciò avvenisse al fine di evitare il diffondersi di sostanze volatili, mentre la finalità era economica e di conservazione della merce oggetto di vendita.
Con il terzo motivo deducono violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al reato di cui al capo b) della imputazione, lamentando che, erroneamente, era stato qualificato come rifiuto speciale il mezzo meccanico ivi menzionato, trattandosi, invece, di escavatore che durante un incendio aveva perso qualsiasi sostanza e componente pericolosi e che già prima di tale evento era stato messo in sicurezza; inoltre, l'analisi del terreno eseguita in prossimità dell'escavatore bruciato aveva escluso la contaminazione del suolo; i tecnici della difesa, poi, avevano confermato che era stato venduto come mezzo usato, e ripristinabile per un corretto utilizzo, e non come rottame.
Con il quarto motivo deducono violazione dell'art. 256 comma 1, d.lgs.152/2006 in relazione al deposito di olio minerale esausto per un periodo superiore ad un anno, lamentando che la Corte territoriale aveva erroneamente sostenuto che la documentazione prodotta in giudizio dalla stessa ditta Impresa XXXXXX comprovasse il reato contestato; la Corte di appello, inoltre, non aveva considerato, al fine di escludere la sussistenza dell'elemento soggettivo che solo una parte dell'olio esausto (180 Kg) aveva superato il prescritto periodo di stoccaggio; infine, i Giudici di appello avrebbero dovuto ritenere scusabile la condotta degli imputati per aver agito in buona fede, determinata dall'attività della ditta preposta allo smaltimento dei rifiuti per conto della ditta Impresa XXXXXX.
Chiedono, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

1. In via preliminare, deve darsi conto del rigetto, con ordinanza resa in udienza, dell'istanza di rinvio presentata dal difensore in considerazione dell'astensione dalle udienze proclamata dagli organi professionali di categoria.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità, con condivisibile orientamento al quale va dato continuità, ha affermato che non è consentita l'astensione dalle udienze penali da parte del difensore in relazione ai procedimenti relativi a reati per i quali la prescrizione è destinata a maturare entro i termini previsti dall'art. 4 del Codice di Autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, adottato il 4 aprile 2007 (con riferimento ai processi pendenti in grado di legittimità entro il termine di 90 giorni), in quanto il rispetto dei presupposti fissati da questo atto, avente natura regolamentare, costituisce la precondizione per la sussistenza del diritto che si afferma voler esercitare (Sez. 2, n. 21779 del 18/02/2014, Rv. 259707; Sez. 6, n. 39248 del 12/07/2013, Rv. 256336; Sez. 3, n. 7620 del 28/01/2010, Rv. 246197).

2. I ricorsi vanno dichiarati inammissibili, sulla base delle argomentazioni che seguono.

3. Il primo ed il secondo motivo di ricorso, che si trattano congiuntamente in quanto entrambi censurano l'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 279, comma 1, d.lgs n. 152/2006, sono manifestamente infondati.
La Corte territoriale ha ritenuto integrato il reato in questione, rimarcando come le complessive risultanze istruttorie (dichiarazioni rese in dibattimento dal tecnico ARPAT, dichiarazioni rese dai testi addotti dalla difesa, documentazione relativa alla domanda di autorizzazione presentata dagli imputati solo in data 22.10.2015) davano atto che l'attività di produzione di legname (in particolare di "cippato", che è legno ridotto in scaglie, con dimensioni variabili da alcuni millimetri a qualche centimetro, a partire da tronchi e ramaglie attraverso la cippatrice, ed utilizzato come combustibile o materia prima per processi naturali e/o industriali), esercitata dagli imputati, produceva emissioni in atmosfera in assenza della prescritta autorizzazione.
La motivazione è congrua e logica e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità.
Giova ricordare che, per costante indirizzo di questa Corte, il reato di cui all'art. 279, comma 1, d.lgs n. 152/2006 si connota quale reato permanente, formale e di pericolo (Sez. 3, n. 24334 del 13/5/2014, Boni, Rv. 259670), che non richiede neppure che l'attività inquinante abbia avuto effettivo inizio, essendo sufficiente la sola sottrazione della stessa al controllo preventivo degli organi di vigilanza (Sez. 3, n. 192 del 24/10/2012, Rando, Rv. 254335); la contravvenzione, quindi, prescinde dalla circostanza che le emissioni superino i valori limite stabiliti, in quanto non costituisce un reato di danno ma, per l'appunto, di mera condotta, la cui ratio si ravvisa nella necessità che la pubblica amministrazione possa esercitare un controllo preventivo su attività potenzialmente dannose per l'ambiente (Sez. 3, n. 28764 del 09/06/2015, Rv.264881-01; Sez. 3, n. 48474 del 19/7/2011, Papa, Rv. 251618; Sez. 3, n. 35232 del 28/6/2007, Fongaro, Rv. 237383).

4. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La Corte territoriale ha confermato la qualificazione del mezzo meccanico semovente fuori uso come rifiuto, sottolineando come lo stesso fosse stato dismesso dai proprietari, che lo avevano abbandonato sul suolo, da quasi cinque anni, in una zona in disparte rispetto alla lavorazione dell'area aziendale.
La motivazione è congrua ed esente da vizi logici nonché in linea con il consolidati principio di diritto, secondo il quale, in tema di gestione dei rifiuti, va considerato quale veicolo fuori uso sia il veicolo di cui il proprietario si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi, sia quello destinato alla demolizione, ufficialmente privato delle targhe, e ciò ancor prima della consegna ad un centro di raccolta, sia quello che risulti in evidente stato di abbandono anche se giacente in area privata (Sez. 3, n. 21963 del 04/03/2005, Rv. 231639; Sez. 3, n. 22035 del 13/04/2010, Rv. 247625).

5. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile.
I ricorrenti, attraverso una formale denuncia di vizio di motivazione, richiedono sostanzialmente una rivisitazione, non consentita in questa sede, delle risultanze processuali.
Nel motivo in esame, in sostanza, si espongono censure le quali si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità, ricostruzione e valutazione, quindi, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, Rv. 235507; sez. 6, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, Rv. 235510; Sez. 3, 27.9.2006, n. 37006, Piras, Rv. 235508).
Quanto, poi, alla buona fede che i ricorrenti deducono quale causa di esclusione dell'elemento soggettivo del reato, la censura è generica.
Secondo consolidato principio di diritto affermato da questa Suprema Corte, la buona fede, che esclude nei reati contravvenzionali l'elemento soggettivo, ben può essere determinata da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa deputata alla tutela dell'interesse protetto dalla norma, idoneo a determinare nel soggetto agente uno scusabile convincimento della liceità della condotta (Sez. 1, n. 47712 del 15/07/2015, Rv. 265424; Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014, Rv. 260657; Sez. 3, n. 49910 del 04/11/2009, Rv. 245863; Sez. 3, n. 172 del 06/11/2007, dep. 07/01/2008, Rv. 238600; Sez. 3, n. 4951 del 17/12/1999, dep. 21/04/2000, Rv. 216561).
Nulla, però, i ricorrenti adducono di concreto in ordine al fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa deputata alla tutela dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice che avrebbe determinato l'errore scusabile invocato (limitandosi a richiamare genericamente un fatto riferibile alla ditta preposta allo smaltimento dei rifiuti per conto della ditta Impresa XXXXXXX); né alcun elemento in tal senso si ricava dalla lettura della sentenza impugnata.
Il motivo di ricorso, pertanto, si connota, quindi, per la sua aspecificità ed integra la violazione dell'art. 581 c.p.p., lett. c), che nel dettare, in generale, quindi anche per il ricorso per cassazione, le regole cui bisogna attenersi nel proporre l'impugnazione, stabilisce che nel relativo atto scritto debbano essere enunciati, tra gli altri, "I motivi, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta"; violazione che, ai sensi dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), determina, per l'appunto, l'inammissibilità dell'impugnazione stessa (cfr. Sez. 6, 30.10.2008, n. 47414, Rv. 242129; Sez. 6, 21.12.2000, n. 8596, Rv. 219087).

6. Essendo i ricorsi inammissibili e, in base al disposto dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno a favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2019.

Il Presidente: DI NICOLA
Il Consigliere estensore: DI STASI

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2019.

 

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