Cass. pen. sez. III - Sent. 28/01/2020 n. 3450 - Lo scarico dei reflui provenienti da impianti di autolavaggio, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all'art. 137, c. 1, d.lgs. n. 152/2006
Cass. pen. sez. III - Sent. 28/01/2020 n. 3450
Lo scarico dei reflui provenienti da impianti di autolavaggio, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all'art. 137, c. 1, d.lgs. n. 152/2006
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Presidente: Elisabetta ROSI
Rel. Consigliere: Fabio ZUNICA
ha pronunciato la seguente
Sentenza
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 17 novembre 2016, il Tribunale di Cosenza condannava A. A., con i doppi benefici di legge, alla pena di euro 3.000 di ammenda, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all'art. 137 comma 1 del d.lgs. 152 del 2006, a lui contestato perché, nella qualità di titolare dell'impianto di autolavaggio denominato "Impresa XXX di A. A.", effettuava scarichi di acque reflue industriali in pubblica fognatura senza autorizzazione, fatto commesso in Roggiano Gravina fino al 26 agosto 2014, data dell'accertamento.
2. Avverso la sentenza del Tribunale calabrese, A. A., tramite il suo difensore di fiducia, ha proposto appello, poi convertito in ricorso per cassazione, sollevando tre motivi.
Con il primo, la difesa deduce la violazione del principio di necessaria offensività di cui agli art. 1 e 49 cod. pen., lamentando la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, per non aver considerato l'insussistenza del pericolo di lesione del bene tutelato, posto che l'autorizzazione, richiesta il giorno successivo all'accertamento, è stata concessa immediatamente dal Comune, prima ancora di effettuare i controlli necessari, che comunque avevano evidenziato la regolarità degli scarichi; dunque, provenendo i reflui da una piccola impresa di autolavaggio, non poteva ritenersi configurabile la fattispecie oggetto di contestazione, stante il mancato superamento dei limiti tabellari e la conseguente assimilabilità del reflui prodotti dall'impresa ai quelli domestici.
Con il secondo motivo, oggetto di doglianza è la decisione del Tribunale di non dare luogo all'audizione del teste B. B., la cui citazione era stata autorizzata, potendo la predetta teste riferire sulla circostanza che l'imputato aveva più volte sollecitato il rilascio dell'autorizzazione, avendo invece il Giudice sottaciuto il fatto, confermato dal teste C. C. e riscontrato dalla produzione di copia della relativa richiesta, che A. A., nel 2010, aveva presentato regolare istanza di autorizzazione, munita di numero di protocollo in entrata al Comune di Roggiano Gravina, il che valeva a escludere la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato contestato, non potendo essere addebitata all'odierno ricorrente l'inerzia del Comune, che aveva compromesso il diritto allo svolgimento dell'attività lavorativa, cui l'interessato certo non poteva rinunciare.
Con il terzo motivo, infine, il ricorrente censura il trattamento sanzionatorio, evidenziando che il Tribunale, pur avendo riconosciuto le attenuanti generiche nella massima espansione, aveva tuttavia errato nel determinare l'ammenda, partendo cioè dalla pena base di 4.500 euro, anziché da quella minima di 1.500 euro prevista dall'art. 137 comma 1 del d.lgs. n. 152 del 2000.
Considerato in diritto
Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
1. Iniziando dal primo motivo, occorre evidenziare che il giudizio sulla colpevolezza dell'imputato non presta il fianco alle censure difensive.
Ed invero il Tribunale, nel ricostruire i fatti di causa, ha innanzitutto richiamato gli accertamenti svolti dai Carabinieri della Stazione di San Sosti, sintetizzati in dibattimento dal teste Cestino, il quale ha riportato un dato fattuale che invero può ritenersi pacifico, ovvero che A. A., fino al 26 agosto 2014, ha svolto l'attività di autolavaggio, senza essere in possesso della relativa autorizzazione per lo scarico dei reflui nella pubblica fognatura, dovendosi evidenziare al riguardo che la predetta autorizzazione veniva rilasciata all'imputato solo il 28 agosto 2014 dal Sindaco di Roggiano Gravina, a seguito di istanza presentata dall'interessato il giorno prima, ovvero all'indomani del sopralluogo della P.G.
In realtà, A. A. aveva presentato un'analoga richiesta già nel 2010, ma la stessa non aveva avuto alcun seguito, per cui non è contestato che, al momento in cui ha avuto luogo il controllo dei Carabinieri, l'autolavaggio era in funzione senza che il titolare dell'impresa fosse munito di valida autorizzazione allo scarico.
Alla stregua di tale accertamento fattuale e a prescindere dall'esito delle analisi dei prelievi sugli scarichi, legittimamente è stato ritenuto configurabile il reato di cui all'art. 137 del d.Igs. 152 del 2006, dovendosi al riguardo richiamare la condivisa affermazione di questa Corte (Sez. 3, n. 51889 del 21/07/2016, Rv. 268398), secondo cui, in tema di tutela delle acque dall'inquinamento, lo scarico dei reflui provenienti da impianti di autolavaggio, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all'art. 137, comma primo, del D.Lgs. n. 152 del 2006, non potendo tali acque essere assimiliate a quelle domestiche.
Ed invero, con l'entrata in vigore del d.Igs. n. 152 del 2006, ai sensi dell'art. 74, comma 1, lett. h), come modificato dal d.Igs. n. 4 del 2008, le acque reflue industriali sono definite come quelle provenienti da edifici o installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti, qualitativamente, dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento; nella nozione di reflui domestici, in definitiva, rientrano tutti i reflui derivanti da attività che non attengono strettamente al prevalente metabolismo umano e alle attività domestiche, come definite dall'art. 74, comma 1, lett. g), del d.Igs. n. 152 del 2006, il cui scarico è invece presidiato dalla mera sanzione amministrativa in base a quanto previsto dall'art. 133, comma 2, del predetto decreto n. 152 del 2006 (cfr. Sez. 3, n. 12865 del 05/02/2009, Rv. 243122).
Rientrano pertanto tra le acque reflue industriali quelle provenienti da attività artigianali e da prestazioni di servizi, a condizione che le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche (Sez. 3, n. 22436 del 03/04/2013, Rv. 255777 e Sez. 3, n. 36982 del 7/07/2011, Rv. 251301), e ciò indipendentemente dal grado o dalla natura dell'inquinamento (così Sez. 3, n. 3199 del 2/10/2014, Rv. 262006).
Dunque, al fine di individuare le acque che derivano dalle attività produttive, occorre procedere a contrario, vale a dire escludendo le acque ricollegabili al metabolismo umano e provenienti dalla realtà domestica (cfr. Sez. 3, n. 2340 del 7/11/2012, Rv. 254134 e la già citata Sez. 3, n. 51889 del 2016, Rv. 268398): è questo il caso degli impianti di autolavaggio, i quali hanno natura di insediamenti produttivi e non di insediamenti civili, in considerazione della qualità inquinante dei reflui, diversa e più grave rispetto a quella dei normali scarichi da abitazioni, e per la presenza di residui quali oli minerali e sostanze chimiche contenute nei detersivi e nelle vernici eventualmente staccatesi dalle vetture usurate.
Ne consegue che lo sversamento sul suolo di tali acque, operato senza autorizzazione, è certamente idoneo a integrare la fattispecie contestata, che ha natura di reato di pericolo, non assumendo pertanto rilievo dirimente la circostanza che i prelievi su alcuni degli scarichi siano risultati nella norma, dovendo in ogni caso essere assicurato il preventivo controllo della P.A.
Di qui la manifesta infondatezza delle censure difensive, formulate peraltro in termini assertivi e non adeguatamente specifici.
2. Allo stesso modo, non possono ritenersi pertinenti le obiezioni sollevate con il secondo motivo di ricorso, posto che la deposizione del teste B. B., secondo la stessa prospettazione difensiva, non si palesava come rilevante e decisiva, non avendo il Tribunale ignorato la circostanza, del resto riferita dal teste della difesa C. C., che A. A. aveva presentato al Comune nel 2010 una richiesta di autorizzazione allo scarico, che tuttavia non aveva avuto alcun seguito.
Tale profilo fattuale era stato dunque già acquisito al corredo probatorio, per cui l'escussione della teste B. B. è stata ragionevolmente ritenuta superflua, tanto più ove si consideri che gli eventuali solleciti dell'imputato ben avrebbero potuto e dovuto essere comprovati in via documentale, il che non risulta sia avvenuto.
A ciò deve solo aggiungersi che la circostanza valorizzata dalla difesa, come correttamente sostenuto nella sentenza impugnata, non sarebbe comunque idonea a escludere la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, peraltro qualificabile anche in termini di sola colpa, stante la natura contravvenzionale della fattispecie, in quanto la sola presentazione dell'istanza, pur se seguita da eventuali sollecitazioni verbali rivolte all'ente preposto, non giustificava comunque l'inizio dell'attività di autolavaggio, fermo restando che nel caso di specie sono rimaste ignote sia le ragioni del mancato rilascio dell'autorizzazione, sia le iniziative formali (e non semplicemente verbali) assunte dall'imputato al fine di superare una così prolungata inerzia della Pubblica Amministrazione, essendo evidente che, in difetto di un espresso provvedimento autorizzatorio, l'attività di scarico dei reflui industriali non poteva essere ritenuta legittima.
3. Venendo infine alle doglianze sul trattamento sanzionatorio, deve rilevarsi che le stesse parimenti sono manifestamente infondate, avendo il Tribunale irrogato a A. A. la pena di 3.000 euro di ammenda, applicando sulla pena base di euro 4.500 la riduzione nella misura massima per il riconoscimento delle attenuanti generiche, per cui deve escludersi che la determinazione della pena sia stata ispirata da errori o da criteri di rigore, tanto più ove si consideri che il Tribunale ha optato per la pena pecuniaria in luogo di quella detentiva e che, in ogni caso, la pena base è stata fissata in misura (euro 4.500) prossima più al minimo (euro 1.500) che al massimo edittale (euro 10.000), né in ogni caso la difesa ha adeguatamente illustrato le ragioni per cui il trattamento sanzionatorio riservato all'imputato avrebbe dovuto essere ancora più mite di quello applicato, non potendosi peraltro sottacere che in favore dell'imputato sono stati riconosciuti i benefici della sospensione condizionale e della non menzione.
4. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto conto infine della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2019.
Il Presidente: ROSI
Il Consigliere estensore: ZUNICA
Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2020.
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